Conversazioni WhatsApp sul cellulare professionale: utilizzabilità a fini probatori

a cura dell’avv. Christopher Jackson, LL.M., Partner

 

Molti contratti di lavoro prevedono che il lavoratore riceva, dal datore di lavoro, alcuni dispositivi elettronici quali cellulare, computer portatile, tablet, ecc. Spesso tali dispositivi vengono utilizzati dal lavoratore anche per scopi personali e non solo professionali, quali, ad esempio, l’invio di e-mail a carattere personale oppure l’uso di applicazioni di messaggeria, quali WhatsApp e Messenger. Il datore di lavoro solitamente tollera un uso parzialmente personale dei dispositivi forniti al lavoratore, anche al di fuori dell’orario di lavoro. Tuttavia, sempre più frequentemente, si pone il problema a sapere quale sia il grado di riservatezza di messaggi o altre comunicazioni presenti sul dispositivo di proprietà del datore di lavoro, specialmente nei casi in cui tali comunicazioni possano essere di rilevanza giudiziaria nell’ambito di una vertenza tra lavoratore e datore di lavoro.

In una recente sentenza (TF 4A_518/2020 del 25 agosto 2021), il Tribunale federale si è chinato sulla fattispecie nell’ambito di un caso in cui la datrice di lavoro ha tentato di usare conversazioni WhatsApp private del lavoratore a scopi probatori. Nella vertenza in esame, il lavoratore aveva ricevuto in uso un telefono cellulare da parte della datrice di lavoro, da utilizzare esclusivamente a fini professionali. Tuttavia, il lavoratore ha sempre usato l’apparecchio anche per scopi privati, ciò di cui la datrice di lavoro era a conoscenza e tollerava.

A seguito della disdetta del rapporto di lavoro con effetto immediato, il lavoratore ha restituito alla datrice di lavoro il telefono cellulare, non prima di averne cancellato i dati. Egli ha poi adito il tribunale, contestando il licenziamento immediato ingiustificato.

Orbene, nell’ambito del procedimento giudiziario, la datrice di lavoro ha prodotto – a scopi probatori – scambi di messaggi WhatsApp a carattere personale, sentimentale e sessuale tra il lavoratore e una collega: tali messaggi sono stati recuperati dall’account iCloud del lavoratore ma di proprietà della datrice di lavoro, al quale la datrice di lavoro aveva accesso, avendo recuperato la password. Il lavoratore ha contestato l’ammissibilità di tali documenti, ritenendo che fossero stati acquisiti in modo illecito, in violazione della sua personalità e che pertanto fossero prove non utilizzabili ai sensi dell’art. 152 cpv. 2 CPC.

In primo luogo, il Tribunale federale ha respinto l’eccezione della datrice di lavoro in merito all’uso privato fatto del cellulare da parte del lavoratore, nonostante il divieto: infatti, il fatto che la datrice di lavoro sapesse dell’uso privato ed anzi l’abbia tollerato rende pretestuosa l’argomentazione offerta.

Secondariamente, l’Alta corte ha altresì respinto l’eccezione secondo la quale i messaggi privati, non essendo stati marcati dal lavoratore in tal senso (con l’indicazione di “personale”), sarebbero stati accessibili alla datrice di lavoro. Infatti, secondo il TF, già di primo acchito i messaggi avevano un contenuto di natura personale e pertanto la datrice di lavoro avrebbe dovuto – sin dal principio – astenersi dall’aprire le conversazioni. In tali casi, l’indicazione del carattere “personale” della comunicazione non è pertanto necessario. Questa conclusione cambia – sostanzialmente – il precedente orientamento della massima istanza.

Infine, anche il fatto che i messaggi fossero salvati sull’account iCloud di proprietà aziendale non implica un diritto d’accesso assoluto del datore di lavoro: infatti, il carattere già prima facie personale delle conversazioni non autorizzava la datrice di lavoro a leggere, tantomeno a produrre in causa, gli scambi di corrispondenza tra il lavoratore e la collega.

Di conseguenza, il TF ha ritenuto che le prove prodotte dalla datrice di lavoro fossero state acquisite in modo illecito e fossero pertanto inutilizzabili nell’ambito del procedimento giudiziario, ai sensi dell’art. 152 cpv. 2 CPC. Infatti, l’accesso ai dati personali del lavoratore da parte della datrice di lavoro ha costituito una violazione dell’art. 4 cpv. 2 e 3 della Legge sulla protezione dei dati (LPD), posto come non vi fosse alcuna proporzionalità tra le finalità dell’accesso ai dati e la lesione della personalità del lavoratore (si ricorda che i messaggi avevano carattere sentimentale e sessuale). Il trattamento dei dati personali del lavoratore non era pertanto necessario per accertare l’adempimento del contratto di lavoro, ciò che peraltro non è nemmeno stato dimostrato dalla datrice di lavoro.

Inoltre, la condotta della datrice di lavoro ha pure leso l’art. 328 CO, che prevede l’obbligo, in capo al datore di lavoro, di tutelare la personalità del lavoratore: di conseguenza, il TF ha confermato la condanna della datrice di lavoro al versamento di CHF 5’000.00 a titolo di risarcimento del torto morale.

Visto quanto precede, a mente di chi scrive, i punti da ritenere – soprattutto per i datori di lavoro – sono i seguenti:

1) È illecito, per il datore di lavoro, accedere a corrispondenza e/o documenti personali del lavoratore, anche qualora gli stessi non siano marcati come “personali”, laddove, già di primo acchito, sia chiara la loro natura personale. Una violazione può comportare pretese risarcitorie del lavoratore nei confronti del datore di lavoro.

Come suesposto, la sentenza in esame (TF 4A_518/2020 del 25 agosto 2021) costituisce un discostamento del TF dalla precedente giurisprudenza, che prevedeva – in buona sostanza – l’obbligo per il lavoratore di marcare come “personali” i dati preclusi al datore di lavoro.

2) Non è ammissibile l’uso di tale documentazione (acquisita in violazione della personalità del lavoratore) nell’ambito di un procedimento giudiziario.

3) Se l’uso personale dei dispositivi messi a disposizione del lavoratore dal datore di lavoro è vietato ma tollerato, quest’ultimo non potrà prevalersi del divieto per giustificare l’accesso illecito ai dati personali dal lavoratore.

4) I dati personali del lavoratore (ad esempio e-mail di natura personale o altra corrispondenza) salvati su cloud o server di proprietà del datore di lavoro restano di natura riservata. Il datore di lavoro non ha diritto di accedere a tali dati, laddove essi siano marcati quali “personali” oppure la loro natura personale sia chiara.

Di conseguenza, in caso di dubbio, il consiglio è di non accedere a dati (segnatamente e-mail, conversazioni WhatsApp, Messenger, ecc.) personali (o potenzialmente personali) del lavoratore. Infatti, tali dati non potrebbero comunque essere usati nell’ambito di una vertenza ma per contro potrebbero costituire un motivo di risarcimento a favore del lavoratore.

Per qualsiasi chiarimento, restiamo a vostra disposizione.